XXXIV.

Giosue Carducci

Nella seconda metà dell’Ottocento la maggiore personalità poetica e la figura piú rilevante di letterato, nonché – dopo quella del grandissimo De Sanctis – di critico letterario, è certamente identificabile in Giosue Carducci, la cui opera si stacca vigorosa, anche se tanto minore rispetto a quelle dei tre grandi scrittori di primo Ottocento, Foscolo, Leopardi e Manzoni, nei quali forza poetica, complessità culturale e intellettuale, significato e rappresentatività storica tanto piú altamente si fondono alimentandosi della grande problematica storica e letteraria fra le spinte dell’illuminismo e quelle dell’epoca romantico-neoclassica.

Lo sfondo storico su cui si colloca la figura del Carducci è quello dell’unificazione e del processo unitario dell’Italia cosí pieno di difficoltà, di scontri fra progresso democratico e involuzioni autoritarie e reazionarie, fra l’insorgere di nuove forze sociali popolari e il consolidamento e la resistenza della classe dirigente borghese, nel declino degli entusiasmi risorgimentali e nel loro svolgimento involutivo in forme di nazionalismo e di politica di potenza. Cosí come da un punto di vista culturale e letterario esso si colloca entro il complicato, e spesso opaco, incrocio fra la decadenza del romanticismo, l’affermarsi del realismo, verismo, positivismo, forme di tardo-romanticismo e spunti di decadentismo.

Di questo difficile e aggrovigliato periodo fra vecchio e nuovo, fra forti limiti provinciali e aperture ad una civiltà culturale e poetica piú europea e moderna, l’opera del Carducci riflette e soffre (con accenti di originalità indiscutibile, ma anche con limiti di confusione, di contraddittorietà, di scarsa profondità) le condizioni e le tensioni irrequiete e diverse in uno svolgimento tutt’altro che facile e con esiti artistici di vario valore e di varia forza di rappresentatività storica. Sicché, se nel suo tempo il Carducci poté apparire (pur fra polemiche dure) il dittatore letterario e il poeta (o addirittura il vate) della nuova Italia unita, nel Novecento la sua opera e la sua personalità furono sottoposte a forti revisioni e riduzioni, aggredite da stroncature pesanti e da un vasto dissenso accentuato sia dall’affermarsi della nuova poesia che lo sentiva estraneo (piú di quanto realmente fosse) alle proprie direzioni e origini moderne ed europee, e chiuso in un arretrato classicismo e in una insopportabile enfasi oratoria, sia dall’antipatia crescente, in sede etico-politica, per il suo nazionalismo e le sue posizioni di vate ufficiale della borghesia autoritaria e antipopolare, finendo per confondere in un’unica immagine del poeta-professore, classicista e pedantesco, e del «vate» retorico dell’Italia crispina, umbertina, nazionalistica e antisocialista, tutta la sua produzione, tutte le fasi e risorse della sua poesia, tutti gli aspetti della sua attività di poeta, di letterato, di critico.

Solo piú recentemente, in un maggiore distacco dalle giustificate, anche se eccessive, reazioni piú immediate e in una visione piú storica e comprensiva (che fra l’altro sottraeva il Carducci all’arduo paragone con i grandi poeti del primo Ottocento e lo collocava in una dimensione piú equa e meno esaltatoria), si è venuta consolidando un’immagine del Carducci tanto piú accettabile e storicamente giusta e articolata, lontana dagli entusiasmi dei carducciani come dalla intolleranza degli anticarducciani delle generazioni dei primi decenni del Novecento.

Piú facilmente cosí si è accettata, da una parte, la validità del letterato e del critico, portatore di una religione delle lettere e di una robusta valorizzazione della tecnica e dello stile letterario, mentre, dall’altra, si è riconosciuto – sfrondando il peso del vate ufficiale e dell’innografo nazionalista – un nucleo poetico piú schietto e autentico, meno toccato dal pericolo cosí frequente della retorica, che si configura entro una tendenza tardoromantica aperta ad accentuazioni realistiche e a preannunci di inquietudine decadente (cui collaborano la forte esperienza stilistica e le forme piú inventive e nuove dello stesso classicismo) e si collega ad alcuni centri essenziali della personalità e dell’esperienza vitale carducciana: anzitutto, come poi meglio vedremo, il forte, istintivo sentimento della vita e della morte, della luce e del buio, della vitalità piena e della sua funerea privazione, sicché il Carducci sarà soprattutto il poeta del contrasto dell’esistenza terrena, e dei suoi simboli compendiosi, realisticamente concreti e fantasticamente suggestivi (luce e buio, sole e ombra, suono e silenzio, calore e freddo, terra verde nel suo rigoglio primaverile e terra nera nel suo significato sepolcrale).

Naturalmente non si vuole con ciò risolvere tutta la poesia carducciana in un’aura elegiaca e funebre, ché anzi da quel tema di contrasto l’aspirazione alla vitalità e ai suoi toni piú sereni e virili è resa piú vibrante ed energica. Ma ciò avviene proprio perché quello slancio vitale reagisce alla istintiva consapevolezza della totale privazione che ne rappresenta la morte, il dileguarsi dal caldo e luminoso regno della terra e del sole, a cui il poeta rivolge il suo sguardo appassionato, il suo interesse piú vero, cosí terreno e vigorosamente elementare. E quel contrasto essenziale ben corrisponde, in un poeta cosí dotato di profonde qualità filosofiche, alla crisi piú istintivamente sofferta fra gli ideali dello spiritualismo e storicismo idealistico romantico e le nuove spinte del positivismo e del naturalismo, mentre, ripeto, pur corrisponde alla stessa forma di esperienza vitale del Carducci, tutt’altro che facile e tutt’altro che dominata da una serenità e forza costanti e sicure.

1. La vita

Nato a Val di Castello (frazione di Pietrasanta in Versilia) il 29 luglio 1835, il Carducci trascorse l’infanzia in Maremma, a Castagneto e a Bolgheri (luoghi rimasti poi nella memoria del poeta come particolarmente cari e congeniali, con la loro natura aspra e squallida, alla sua indole selvaggia e risentita), dove il padre (la madre era Ildegonda Celi) era medico condotto e conduceva, con la sua famiglia, una vita povera e precaria a causa del suo carattere non facile e delle sue idee liberali.

Dopo una prima educazione sui poeti latini e su quelli italiani moderni piú cari anche al padre (Manzoni e Berchet), l’adolescente intraprese studi regolari a Firenze presso le scuole degli Scolopi per poi entrare, nel ’53, alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si distinse per il suo ingegno, ma anche per il suo carattere ribelle e insofferente del clima sonnolento, attardato, reazionario di quella scuola, allora in mano ad ecclesiastici ligi al potere granducale toscano.

Laureatosi nel ’56, fu presto costretto dalle difficoltà economiche della famiglia paterna (colpita intanto dalla tragedia del fratello Dante, morto violentemente in seguito ad un alterco con il padre in condizioni oscure che, se ufficialmente furono spiegate come un suicidio, hanno lasciato adito al tremendo sospetto di una morte causata da una stilettata infertagli, nella lite, dal padre) e dal suo precoce matrimonio con una giovinetta del popolo, Elvira Menicucci, a cercare mezzi di sostentamento per sé e per i suoi nell’insegnamento e in faticosi lavori di curatore e commentatore di scrittori del passato. Ma poco dopo, nel ’60, il ministro Terenzio Mamiani lo chiamava improvvisamente a coprire la cattedra di letteratura italiana nell’Università di Bologna, università in cui egli insegnerà fino al 1904 e città in cui vivrà fino alla morte, e dove, pur non potendo partecipare (per i suoi obblighi familiari) all’attività militare delle ultime imprese risorgimentali, venne sempre piú legandosi alle correnti democratiche e repubblicane romagnole e svolgendo, nella sua stessa poesia, specie fino al ’70, un’aspra polemica contro la monarchia sabauda e la politica governativa con i suoi compromessi e i suoi insuccessi (la sconfitta di Lissa e Custoza, la sconfessione dell’impresa garibaldina di Mentana), con i provvedimenti antipopolari e la timidezza nel perseguire l’unità e il rafforzamento del nuovo stato unitario, la cui realtà appariva al Carducci cosí diversa dai sogni e dalle speranze del Risorgimento.

Ma il compimento, malgrado tutto, dell’unità italiana con la presa di Roma e poi l’avvento della politica forte e ambiziosa del Crispi, la preoccupazione crescente dei congiunti pericoli, per la vita dello stato unitario, rappresentati dal clericalismo (sempre da lui combattuto anche nella sua nota partecipazione alla Massoneria) e dalle insorgenti forze proletarie e internazionaliste, provocarono a poco a poco (come del resto avvenne in vasti settori della sinistra garibaldina e mazziniana) una conversione del Carducci dal suo repubblicanesimo ad una riconciliazione con la monarchia sabauda in nome della causa dell’unità, della solidità dello stato nazionale, della sua affermazione in campo internazionale e della desiderata conclusione del processo unitario fino alle frontiere alpine nel Trentino e nella Venezia Giulia.

In tal modo il Carducci venne ad essere il cantore ufficiale dell’Italia umbertina e della classe dirigente borghese, mentre dall’alto insegnamento della cattedra bolognese e dal suo magistero di critico, di poeta, di letterato gli derivava un altissimo prestigio di dittatore del gusto contemporaneo. Nominato senatore del regno nel ’90, nel 1906 la fama internazionale si aggiunse a quella goduta in Italia, con l’assegnazione del Premio Nobel.

Ma intanto le malattie che lo avevano colpito da vari anni si aggravavano ed egli moriva nel febbraio del 1907, dopo una senilità carica di onori, di gloria, di intensissima attività letteraria, ma anche aggravata da profonde amarezze, da dure polemiche, da una crescente intima solitudine, da irrequiete scontentezze e vani vagheggiamenti di serenità, accresciuti dalla vecchiaia, dalle malattie, dai dissensi politici con antichi compagni di idee, dalla perdita di persone amate (al centro la morte della donna piú intensamente amata, quella Lina Piva, cantata col nome di Lidia), ma anche legati a quel centrale e naturale dissidio di sentimenti e a quello squilibrio fra forza e ipersensibilità malinconica che troppo spesso fu celata da immagini di saldo e unico vigore, di sanità senza incrinature, e che invece appare fondamentale a spiegare le alternanze di tono e i contrasti fecondi della sua stessa poesia, piú inquieta e sensibile, piú complessa e vibrante di quanto non risulti da quelle immagini sforzate di assoluta serenità e sanità classica.

Interpretazione della natura, della vita interiore, della stessa poesia carducciana che potrebbe, in un esame circostanziato e minuto, avvalersi della documentazione del ricco e interessantissimo epistolario in cui il Carducci rivela piú immediatamente e direttamente la sua umanità, i sobbalzi della sua nervosa sensibilità, i contrasti fra impeti vitali e profondi moti di amarezza, di abbandono, di desiderio della morte, di allibito orrore di fronte a questa suprema privazione della vita.

2. Dal noviziato poetico a «Giambi ed Epodi»

Dopo un’iniziale e ingenua, esuberante attività espressiva (fra il ’49 e il ’52) atteggiata nei piú facili modi romantici di tipo berchettiano o carreriano, il noviziato poetico del Carducci si precisa in quelle Rime di San Miniato in cui il giovane poeta (al centro del gruppo di amici poeti che vollero chiamarsi polemicamente «gli amici pedanti») entra in decisa polemica con il romanticismo e le sue forme piú apertamente sentimentali, languide, stilisticamente facili e sciatte, contrapponendo ad esse e al loro mondo fiacco e spiritualistico («il secoletto vil che cristianeggia») un ideale di vita virile, laica, di combattivi sentimenti patriottici e xenofobi (i romantici influenzati dagli stranieri appaiono al Carducci «traditori della patria»), appoggiato al piú intransigente classicismo e alla tradizione alfieriana, foscoliana, leopardiana, nonché ad una esasperata valorizzazione dello stile e dello studio ad esso necessario di contro alla romantica esaltazione del cuore e del semplice sentimento spontaneo e immediato.

Dove indubbiamente – pur nelle forme esasperate dello «scudiero dei classici» – si coglie già uno dei motivi storicamente importanti della posizione carducciana di fronte alla decadenza romantica e alla fiacca poesia di metà Ottocento, appunto il forte senso dello stile, dell’elaborazione espressiva, della tecnica artistica, della serenità del lavoro poetico che si maturerà in modi e concezioni piú originali e sicure, ma che fin d’ora caratterizza – insieme alla risentita posizione anticonformistica e ribelle del giovane scrittore – la novità della poesia carducciana sullo sfondo del suo tempo.

Queste posizioni letterarie e vitali trovano poi, fin dai primi anni del soggiorno bolognese – dopo l’abbondante rimeria politica di intonazione risorgimentale sabauda fra ’59 e ’60, raccolta insieme a componimenti di vario argomento nel volume di Juvenilia –, un arricchimento e un approfondimento in una salutare crisi delle sue idee politiche che, nel contatto con l’ambiente romagnolo ribelle, radicale, si fanno giacobine, violentemente repubblicane, sempre piú decisamente anticlericali e democratiche e alimentano di un soffio piú autentico di vita, di autentica passione politica e di aspirazione ad un’arte piú realistica e polemica la crescente maturazione del mondo poetico carducciano nelle stesse sue componenti piú intimamente personali (si pensi al sonetto familiare-sepolcrale Per Val d’Arno) e la sua forza di costruzione robusta ed efficace. È il periodo della raccolta di Levia Gravia, con la sua irrequieta varietà di tematica e di esperimenti stilistici, già dominata però da accenti forti e polemici e da un’aspirazione al realismo che può trasparire anche dalla complessa e vasta composizione ad affresco storico dei Poeti di parte bianca; periodo a cui segue, sulla base del famoso Inno a Satana del ’63, irruenta e significativa esplosione (anche se scomposta e non priva di superficialità) dell’animus polemico e combattivo del Carducci, impegnato in ideali illuministici e progressivi, anticlericali e antimoderati (Satana come «forza vindice della ragione» e del progresso inevitabilmente vittorioso di ogni resistenza reazionaria e religiosa), il libro di Giambi ed Epodi (1867-1869), il libro della piú violenta espressione polemica della poesia carducciana nel momento del suo piú deciso accordo con la disperata esasperazione di gruppi democratici e avanzati italiani di fronte alle sconfitte cui il governo monarchico e moderato portava il paese (Lissa, Custoza), alla sua sconfessione delle iniziative garibaldine (Mentana), alle sue esitazioni nella risoluzione della questione romana e del compimento dell’unità nazionale.

In quell’accesa tensione combattiva (che investiva insieme il Vaticano, la monarchia sabauda, la destra storica, il cesarismo napoleonico, i residui feudatari-nobiliari, la letteratura falsa e fiacca della decadenza romantica in nome di nuovi ideali di progresso, di laicismo, di giustizia e libertà, di realismo e di coerente stile robusto e aggressivo) tutto l’animo carducciano si accende e matura fra forza aggressiva e sdegnosa e moti di malinconia cupa ed esasperata, di odio e di amore, nel contrasto fra realtà presente deludente e meschina e ricordi di un passato glorioso e speranze di una società e di una patria libera, forte, giusta. E coerentemente il linguaggio poetico supera le angustie e le incertezze delle precedenti raccolte, si fa denso e vivace, ricco di colori nuovi piú realistici, capace di rapidi quadri di paesaggio e anche di un canto virile e spiegato a piena voce, che, se si fondono in una prevalente forza di eloquenza (ma di eloquenza sincera e salutare nel vincere certe eccessive remore del letterato chiuso in un classicismo piú scolastico), fanno affiorare insieme elementi piú intimi dell’animo carducciano (l’appassionato appello ad una vita naturale, schietta, sana, il grave sentimento del tedio della semplice esistenza mediocre e falsa, amore per un paesaggio colorito e fervido, la malinconia di scene di squallore invernale) e preparano questo alle prove poetiche piú sicure della sua piena maturità, fra Rime nuove e Odi barbare.

Insomma Giambi ed Epodi, pur non raggiungendo mai l’altezza della maggiore poesia carducciana, la prepara e ne è il necessario preambolo, la pedana di lancio, in quanto, sull’onda impetuosa di quella tensione poetico-eloquente (in cui, fra l’altro, il Carducci arricchiva la sua esperienza poetica della congeniale apertura a esempi europei di poesia satirica e polemica a sfondo politico) e in quel momento sollecitante di pieno accordo con il settore piú avanzato della democrazia italiana ed europea, il poeta rompeva i limiti piú letterari e scolastici della sua precedente attività, immetteva vita e passioni personali e storiche nella sua poesia, e cosí veniva creandosi un linguaggio poetico di forte e piú spregiudicata novità e di vaste risorse di colori e di canto.

3. «Rime nuove» e «Odi barbare»

Tuttavia in Giambi ed Epodi la cronaca e le occasioni polemich,e se sollecitavano, con la viva passione politica e morale, la poesia carducciana a forme ardite e nuove di linguaggio, di colore e di canto, ne limitavano ancora la ricchezza piú intima con il loro carattere troppo pratico e immediato. Sicché la vera maturità poetica del Carducci viene raggiunta nelle due raccolte di Rime nuove e delle Odi barbare, aperte da quell’ultimo epodo Ripresa, Avanti! Avanti! del ’72, in cui, dopo l’apertura piú eloquente e combattiva rivolta al «sauro destrier de la canzone», alla sua poesia polemica e nuova, il poeta si rivolge ai ricordi della propria fanciullezza e adolescenza selvaggia e malinconica (origine e riprova della originalità della sua poesia) sullo sfondo del paesaggio maremmano, la cui rievocazione intensa costituisce la prima prova significativa della maggiore poesia carducciana, scaturita appunto da questa possente e struggente rievocazione di un paesaggio squallido e selvaggio, seminato di rovine e insieme di elementi naturali dai colori accesi e da fresche impressioni realistiche, congeniali all’animo del poeta, forte e nostalgico, attratto dall’energia e dallo squallore, dalla vitalità piena e dalla desolazione struggente, ricco di impeti vitali e di abbandoni elegiaci e profondamente malinconici.

Da questo scavo nel proprio animo e nelle sue tendenze piú originali l’alacre fantasia carducciana trae la sua maggiore ricchezza di slancio, di toni, di capacità di visione, sia che si proietti nella costruzione di grandiose scene storiche ed epiche (come Sui campi di Marengo o Faida di comune o Comune rustico), sia che si immerga nella rievocazione del proprio passato congiungendo paesaggi di piena luce meridiana e ricordi fra lieti e mesti della propria vicenda vitale e affettiva (come in Davanti San Guido o in Traversando la Maremma toscana), sia che si espanda in piú aperti impeti vitali (come in Idillio di maggio e in quell’Idillio maremmano, che tuttavia fa avvertire i rischi di maggiore superficialità di un sentimentalismo un poco enfatico), sia che piú decisamente faccia vibrare la sua profonda nota elegiaca e funerea (come in Tedio invernale o in Brindisi funebre: «Beviam, beviam coi morti; / con essi sta il mio cuor») per congiungerla a contrasto con la sua pur profonda aspirazione alla vita, come in Funere mersit acerbo, come soprattutto nel piccolo capolavoro di Pianto antico, scritto per la morte del figlioletto Dante e suggellante con una grazia cosí perfetta, con un canto insieme cosí popolareggiante e cosí squisito, il tema cosí suo della vita e della morte in continuo contrasto e rapporto, sia che ancora – su questa via piú profonda della sua sensibilità tardo-romantica – giunga a rappresentare una specie di malinconia della luce, una sorta di struggente presenza della morte avvertita proprio nel pieno della massima vitalità nell’assai significativa Ballata dolorosa, mentre la sua capacità visiva, che a volte raggiunge una robusta forza plastica e realistica, può dar vita a una scena cosí reale, ma cosí permeata di fantasia e di soave mestizia, come quella di San Martino, oppure ad una visione piú interiore, e decisamente immaginata e cercata come suggestiva evasione dal presente, nella splendida e favolosa purezza della prima età in Visione:

E al cuor nel fiso mito fulgore

di quella placida fata morgana

riaffacciavasi la prima età,

senza memorie, senza dolore,

pur come un’isola verde, lontana

entro una pallida serenità.

Una poesia, quest’ultima qui citata nel suo finale, che ben fa capire ad un lettore moderno come il Carducci potesse anche giungere a note sottili e sorprendenti di sensibilità allusiva e suggestiva molto moderne, tutt’altro che chiuso in un classicismo opaco e arretrato.

E infatti, se le poesie fin qui ricordate fan parte di Rime nuove (in cui il Carducci piú si serví delle risorse dei versi rimati della tradizione poetica italiana e piú puntò su di un singolare incontro di eleganza squisita e di grazia e freschezza popolareggiante), anche nell’altra raccolta delle Odi barbare (in gran parte composta di poesie cronologicamente intrecciate con quelle di Rime nuove) mal si potrebbe parlare di un classicismo stantio e opprimente, pur nella chiara volontà carducciana di riprendere metri classici adattandoli (sí da parer «barbari» ad orecchi antichi) al sistema accentuativo (non quantitativo classico) della poesia italiana.

Anche in quella raffinata ricerca di uno stilista e di un tecnico squisito e di un innamorato dell’antica poesia (come del mondo sereno e virile dei classici) si esprime infatti una sensibilità assai moderna e in realtà si tratta di un classicismo moderno e anzi della piú impegnativa direzione del Carducci nella creazione di uno strumento tecnico e di un linguaggio nuovo, arduo, non convenzionale e abusato, e anche di una strofe difficile, ma, per usare sue parole, di una «strofe che ha il battito del cuore», che sappia adeguare con una difficile e disciplinata libertà i moti di una sensibilità nuova e moderna, che può toccare gli estremi di un vitalismo tutto terrestre e quasi carnale, di ispirazione paganeggiante (come in Canto di marzo). D’altra parte il gusto della tecnica difficile, della sperimentazione metrica e linguistica giunge a volte a forme faticose e troppo letterarie ed erudite, cosí come il crescente prevalere – nella rivoluzione politica che vedremo ancor piú accentuata nell’ultimo volume di Rime e ritmi – di temi e motivi di nazionalismo orgoglioso e di una esaltazione della romanità cui la nuova Italia è chiamata ad adeguarsi porta spesso il poeta delle Barbare a toni retorici e di celebrazione eloquente e pericolosa (come, ad esempio, nell’Annuale della fondazione di Roma).

Ma quando classicismo e modernità, tecnica e sensibilità trovano il loro giusto punto di equilibrio, e l’enfasi celebrativa cede a un tono di grave elegia, di nostalgia meditativa e di robusta inquieta malinconia (nel ricordo di gloriosi passati irrecuperabili o nell’espressione dei propri piú originali temi di contrasto fra vitalità e sentimento della caducità, della morte), le Barbare raggiungono nuovi alti acquisti positivi, nuovi originali modi espressivi, e il loro linguaggio piú brunito e fosco, la loro lentezza ritmica echeggiante e scandita, ben si addice appunto al centrale sviluppo della piú fonda sensibilità carducciana e alle sue aperture piú singolarmente moderne. Si pensi alla poesia fra drammatica e struggente di Alla stazione in una mattina d’autunno, in cui il congedo dalla donna amata che parte in treno alle incerte luci dell’alba si traduce nel contrasto fra la radiosa, struggente immagine femminile e del «giovine sole di giugno» in cui essa era apparsa per la prima volta al poeta e la scena livida e sofferta dei preparativi della partenza del convoglio ferroviario che, con le loro immagini e suoni allucinanti e ossessivi, paion alludere alla tormentosa e lenta preparazione di un misterioso supplizio. O si pensi a Mors con il nuovo severo contrasto fra le immagini degli «anni lieti crescenti» dei fanciulli stroncati dall’epidemia difterica e quella dei superstiti «che invecchian ivi nell’ombra», nel loro desolato dramma interamente terreno, in attesa del ritorno della furia distruttrice della morte. O si pensi ancora al quadro iniziale di Dinanzi alle terme di Caracalla con la sua epica triste-grandiosa e il paesaggio aperto, in piena aria, e pur illividito da particolari intensamente realistici di mestizia e di rovina resi piú cupi dai toni e dai colori bruniti del linguaggio classicistico e del ritmo lento e solenne.

Su questa base si svolgono poesie di ampia costruzione, prevalentemente intonate all’elegia funebre e a miti drammatici e dolorosi (Miramar e Per la morte di Eugenio Napoleone, accomunati dal malinconico motivo della nemesi storica che fa ricadere le colpe degli antenati sui figli piú puri e generosi), e si presentano componimenti brevi e concentrati, in cui predominano il sentimento doloroso e virile, il desiderio ossessivo e inquietante della morte che ricongiunga il poeta, ormai stanco di vicende e dolori e pur non domato e ancor forte, ai cari scomparsi per sempre. Che è il tema appunto della bellissima Nevicata, uno dei piú indiscutibili capolavori del Carducci e come tale significativamente dimostrato da chi seppe individuare la centralità del tema di contrasto esistenziale nella zona piú intima della personalità e della poesia carducciana.

E intorno a questo componimento cosí intenso, vibrante e squadrato (nella scena perfetta della giornata invernale e nel silenzio della neve rotto da rumori ed echi di vita che pur vengono evocati nella loro squillante letizia vitale, nel denso e serrato colloquio coi morti, le cui ombre battono alla finestra come misteriosi uccelli raminghi, nel gesto brusco e fermo con cui il poeta invita l’«indomito cuore» a placarsi e accettare il riposo eterno «giú», «al silenzio», «e ne l’ombre»), in questa zona di assoluta intimità senza enfasi, di autobiografia tutta trasposta in lirica, possono anche svolgersi, con incantevole libertà e agio sentimentale e fantastico, poesie che rievocano fra malinconia e dolcezza, fra sogno e realtà, ricordi della fanciullezza e della vita familiare piú cara, come accade nel Sogno d’estate, prova ben notevole delle risorse di questo Carducci maturo anche nella direzione di evocazioni suggestive e dimesse, di immagini meste e sorridenti, di linguaggio eletto e realistico di vera originalità e di netto superamento della situazione linguistico-poetica della decadenza romantica o di un classicismo attardato e scolastico.

4. «Rime e ritmi»: l’ultimo periodo della poesia carducciana

La forza piú intera della poesia carducciana si esaurisce nella fase delle Rime nuove e delle Odi barbare. Dopo tale fase si apre l’ultimo tempo di una poesia che nella raccolta di Rime e ritmi si fa piú esile e come divisa fra una vena piú gracile e pur genuina (in cui il Carducci senile par ripiegarsi in una grazia malinconica e pacata, in colori tenui e limpidi, in disegni delicati e puri, in lievi e squisite effusioni del «vecchio cuore» mosso ancora da estremi affetti amorosi, come quello per Annie Vivanti, in quadri di paesaggio, soprattutto quello alpino cui la fantasia e l’animo del poeta sanno ancora aprirsi con sensibilità delicata e inventiva) e il riaffiorare di un’ultima velleità grandiosa e vaticinante in cui la pertinace fiducia nella propria missione di vate civile e patriottico si traduce effettivamente – malgrado qualità di costruzione ancora notevoli e spiragli di particolari poetici piú schietti – in una poesia oratoria, eloquente con la quale il Carducci sosteneva e rafforzava la sua immagine – cara al suo tempo e ai ceti dominanti della nazione, ma indubbiamente tanto inferiore su di un piano poetico vero – di poeta ufficiale della «terza Italia», di celebratore delle grandi date storiche del Risorgimento e dello stato unitario, esaltato nella sua dirigenza monarchico-conservatrice, nelle sue tendenze alla potenza e all’autoritarismo (fra la politica «forte» del Crispi, il crescente nazionalismo, l’autoritarismo della monarchia umbertina), di contro all’antico avversario clericale, al socialismo «antinazionale», al repubblicanesimo «settario».

Questa tendenza di poesia oratoria – consolidata nelle cosiddette «grandi odi» quali Piemonte, Cadore, La bicocca di San Giacomo, Alla città di Ferrara, piú direttamente legate all’epopea risorgimentale e agli ideali nazionalistici prevalenti in quest’ultimo Carducci, o in una poesia come la Chiesa di Polenta, espressione di un vago spiritualismo incerto e fiacco – ben corrisponde all’innegabile involuzione politica e ideale del Carducci poeta ufficiale dell’Italia conservatrice e chiusa alle piú vere spinte sociali e democratiche del tempo, cosí come il Carducci sentiva ormai piú i motivi di un nazionalismo bellicoso e autoritario che non i suoi vecchi motivi di «giustizia e libertà».

Tuttavia già da quanto sopra dicevamo appar pur chiaro che non tutta l’ultima poesia carducciana si può risolvere in questo prevalere dell’eloquenza e della tematica nazionalistico-conservatrice. Né si può ridurre sotto un unico segno di involuzione poetica parallela all’involuzione politica e ideale quella produzione, cui sopra accennavo, legata al ripiegamento del poeta nel suo intimo, nei suoi affetti piú personali e schietti, nella sua sensibilità visiva, nella sua malinconia pacata, senile. Ché tale produzione, mentre non è solo valutabile come squisito frutto di un’arte consumata ed espertissima, ma priva di vere spinte poetiche, si libera interamente dal peso dell’oratoria – sfogata nella direzione del vate ufficiale e civile – e rivendica una propria e autentica liricità, estremo risultato di quella tendenza carducciana piú intima, piú connessa ai suoi fondamentali motivi di contrasto esistenziale, di attrazione per la vitalità, per i suoi colori, la sua luce, le sue scene e figure, e insieme di vibrazione elegiaca e malinconica al pensiero e ai toni scuri e mesti della morte, dell’ombra che sempre invadon l’animo senile del poeta. Tutto ciò ritorna come in un’aura piú sottile e sognata, in una voce piú sommessa, in un canto piú debole, ma pur ancora autentico e sicuro. Ne risultano nuovi squisiti toni e quadri poetici: i toni di colloquio piú sussurrato e mesto-sorridente della poesia Ad Annie, i piccoli quadri a tenue e perfetto disegno e colore di Mezzogiorno alpino o della Ostessa di Gaby, o l’incantevole trama fiabesca, con toni di un nuovo realismo fantastico, dell’Elegia di Monte Spluga, o l’incontro, ancora una volta, degli elementi essenziali del contrasto carducciano in quel patetico e originale congedo dalla poesia e dalla vita (sentita come coincidente con la poesia) che è Presso una Certosa, con il suo attacco limpido e malinconico, in cui i colori vibrano di un ultimo accordo piú pacato e tenero («Da quel verde, mestamente pertinace tra le foglie / gialle e rosse dell’acacia, senza vento una si toglie»), con il suo finale che conclude in modi di assoluta intimità l’ultimo incontro di luce e buio, di vita e morte, di ombra e poesia nell’estremo soave anelito di una fede poetica e di un’ispirazione vitale che, nella sua maggiore purezza, appunto con quella coincise:

A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia

il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!

Il tuo canto, o padre Omero,

pria ch’ombra avvolgami!

5. Il critico e il prosatore

Proprio quella fede nella poesia e nella letteratura che vibra in questo tardo componimento carducciano è anche al centro dell’ispirazione che sorregge l’imponente attività critica del Carducci che, d’altra parte, si precisa in un’attenzione amorosa ed esperta agli aspetti tecnici della poesia come arte, frutto di studio laborioso, di saldo possesso della letteratura precedente (classica e moderna, ma specie classica per la sua esemplarità di perfezione stilistica), di vaste esperienze nei piú segreti congegni dell’espressione letteraria. Non che mancasse interamente al Carducci e il gusto e l’interesse per gli elementi storici della letteratura e della poesia, l’ambizione, e a volte la capacità di delineare quadri storico-letterari, ma certo mancava a lui quel saldo e profondo senso storico e quell’appoggio di un metodo estetico filosofico che contraddistinguono la grande opera critica del De Sanctis, da lui avversato, ma a volte viceversa riecheggiato proprio là dove la forza di sintesi storica del Carducci si rivelava piú impari a veri compiti storiografici. E sulla direzione di vere delineazioni della storia letteraria il Carducci finiva spesso (risentendo di certe tendenze del Gioberti da lui assai studiato) per cedere al gusto di affreschi grandiosi e suggestivi, ma scarsamente sicuri e approfonditi.

Meglio (e a volte con contributi assai importanti e validi) il Carducci riesce semmai nella ricostruzione dello sviluppo biografico-poetico di singole personalità e specie della loro formazione culturale e letteraria (il caso del saggio su Adolescenza e gioventú di Ugo Foscolo o quello sulla Gioventú dell’Ariosto e la letteratura latina), là dove s’incontravano felicemente una piú attenta utilizzazione di dati biografici e culturali (frutto di ricerche personali archivistiche ed erudite nella direzione di quella scuola storica o storico-positivistica cui il Carducci diede contributi ed esempi importanti) e il suo piú genuino gusto per l’ars, per la tecnica, per i rapporti fra lo scrittore in via di formazione e di tirocinio letterario e la letteratura a lui precedente, fornitrice di esempi e moduli da assimilare e rifondere nelle sue tendenze originali.

Soprattutto, dunque, il Carducci fu un grande critico-tecnico e i suoi saggi piú affascinanti e decisivi rimangono perciò quelli in cui egli indaga e rivela i segreti dello stile, della metrica, della cultura letteraria di uno scrittore: sia esso una grande personalità come il Parini (su cui soprattutto importante è la bellissima Storia del «Giorno») o viceversa un piccolo, ma raffinato artista, com’è il caso di tanti lirici settecenteschi di cui il Carducci in alcune antologie e nei relativi saggi introduttivi seppe amorosamente mettere in rilievo il gusto squisito, la sottile finezza artistica, la maestria di rinnovamento e di applicazione nell’uso della metrica e della lingua poetica. Capacità genuina che, accompagnata da un acuto gusto psicologico, rende particolarmente preziosi i suoi commenti delle Stanze del Poliziano o delle rime del Petrarca (fatti in collaborazione con il suo fine allievo, Severino Ferrari).

Sicché la critica di tipo stilistico e linguistico può ben riconoscere nel Carducci il suo maggiore fondatore e precursore in Italia, mentre già in generale ogni critico moderno deve ben recuperare nel proprio metodo quanto da quella grande lezione pur sempre deriva.

I saggi critici carducciani sono anche esempi assai validi della prosa di questo scrittore, che non può esser solo misurato e valutato nell’ambito piú specifico della poesia, anche se in questo egli raggiunge i suoi risultati piú alti.

Anche nella prosa si può notare una tendenza piú oratoria che va appesantendosi nelle forme di un’eloquenza celebrativa ufficiale in coincidenza con l’involuzione politica nazionalistico-conservatrice del tardo Carducci e con le sue posizioni di portavoce della classe dirigente italiana (i numerosi discorsi ufficiali, come, ad esempio, la commemorazione di Garibaldi, o il discorso per il monumento di Dante a Trento). Ma, accanto a questo tipo di prosa piú accademica e retorica, la viva personalità carducciana e il suo estro piú nervoso e genuino, il suo incontro di nostalgie autobiografiche, di umori polemici e ironici, di humour e di malinconia, di gusto classicistico e di amore per forme popolaresche, trovano espressione in una prosa d’arte vivacissima, scattante e brillante, o appassionata ed elegiaca, che rompe il pericolo dell’enfasi piú paludata e si apre ad esperienze assai moderne in cui ispirazione schietta e arte squisita ed elaborata si fondono mirabilmente. Saranno le Risorse di San Miniato (che rievocano con tanta forza di humour e di nostalgia il sodalizio dei giovani professori e delle loro piccole avventure nell’ambiente paesano della cittadina toscana) o saranno le aspre e balde pagine di polemica di Confessioni e battaglie o tante e tante pagine di quell’epistolario, che già ricordammo come documento importante dei moti della vita interiore e del carattere del Carducci, di cui la prosa epistolare asseconda e riflette gli sbalzi e i sussulti di un animo forte e inquieto, le violente ondate malinconiche e gli impeti vitali e battaglieri, le impennate e le depressioni, le risorse di umorismo nervoso e alacre e le ricadute in momenti pesanti di tedio e di compiacimento funereo, con un linguaggio sempre sorvegliato e mai sciatto e corrivo, capace di un impasto aulico e popolaresco, sottile e vigoroso, e a volte volutamente e ironicamente pedantesco che va ben considerato fra le offerte vive del singolare classicismo moderno del Carducci, della sua arte coltissima, ma tutt’altro che antiquata e puramente tradizionale: un’arte di prosa che, come quella della sua poesia, si fa originalmente luce fra le esperienze delle avanguardie della scapigliatura e supera sia il tardo classicismo puristico, sia il sentimentalismo dell’ultimo romanticismo, sia le forme piú piatte del verismo piú scolastico e fotografico.